J U L I E T 35 YEARS
parla Roberto Vidali
direttore di JULIET art magazine
Da quali esigenze nasce “Juliet art magazine”?
L’atto di fondazione del marchio “Juliet” risale al lontano 1980 e il primo fascicolo della rivista vede la luce nel dicembre di quell’anno. Via via a questo piccolo corpo informe e quasi privo di sostanza di rivista in bianco e nero si è aggiunta la carne e il muscolo. Si sono aumentate le pagine, si è aggiunto il colore, sono stati realizzati innumerevoli fascicoli ed extra issues, è stata messa a regime l’uscita di cataloghi di mostre d’arte, l’edizione di un calendario con quadri di artisti e la pubblicazione di un supplemento dedicato alla fotografia. Non pago di questa frenetica attività, lo staff di Juliet, negli anni ha impiantato una attività espositiva di tutto rispetto, realizzando mostre di Piero Gilardi, Maurizio Cattelan, Claudio Massini, Aldo Mondino, Massimo Giacon, ecc. L’esigenza di tutto ciò? Visto che nessuno ci pagava per farlo possiamo concludere che solo la passione per le immagini ci spinse a muoverci in questa broda bollente…
Come giudica i trentacinque anni di Juliet che si stanno per concludere?
Sono stati anni faticosi, ma anche di grande soddisfazione. Vede, procedere nella realizzazione di una molteplicità di prodotti editoriali (riviste, cataloghi, extra issues) significa convivere all’interno di una famiglia allargata: non si è mai soli e non si resta mai inattivi.
La sua attività di critico è cresciuta di pari passo con il giornale; lei si riconosce nel lavoro svolto?
Mi riconosco nel lavoro di artisti che rispetto e che seguo già da molti anni, autori di cui ho organizzato molteplici mostre e che ho ripetutamente pubblicato sulle pagine della rivista Juliet.
Lei si riconosce nella definizione di scopritore di giovani talenti?
Negli anni Settanta, quando ero giovane e operavo come direttore della sezione arti visive del Centro La Cappella, organizzando mostre di Giuseppe Desiato, Riccardo Dalisi, Stefano Di Stasio, Zivko Marušic, e così via, probabilmente avevo anche l’ambizione di essere uno scopritore, ma probabilmente c’era anche il vezzo di sentirmi parte di un flusso generazionale. Oggi, col ruolo editoriale che rivesto, non credo che questo sia il mio compito.
Quali sono gli artisti italiani che oggi maggiormente le interessano e perché?
Io non so, in campo artistico, quale sia lo spartiacque che divide la gioventù dalla maturità: Cattelan lo si può reputare un giovane artista? Un po’ sì e un po’ no, forse. Comunque, il lavoro di Maurizio Cattelan, il suo nascondersi e il suo usare la stupidità degli altri per autoaffermarsi, mi incuriosisce, mi diverte, e mi mette addosso allegria; il lavoro di Claudio Massini, iperdecorativo in assoluto, mi affascina e se potessi riempirei la mia casa con le sue opere; i quadri di Antonio Sofianopulo, lirici e fantasiosi, mi commuovono e mi incuriosiscono sempre. Ma non sono una persona dalle vedute ristrette, di artisti se ne potrebbero nominare molti altri.
Quali porte ha trovato chiuse nella sua attività promozionale a favore delle nuove espressioni artistiche?
Le porte che di solito stanno chiuse sono quelle dell’ottusità, della poca propensione al dialogo e all’ascolto, dell’incapacità di mettersi in discussione; tutte qualità che a Trieste (ma non solo) non mancano di certo.
C’è un sogno nel cassetto che lei vorrebbe realizzare?
I miei sogni li realizzo giorno per giorno, costruendo fantasie editoriali e organizzando mostre d’arte: a dicembre tocchiamo il traguardo del fascicolo numero 175 e le mostre da me organizzate viaggiano attorno a quota trecento. Mica posso pretendere di sognarmi Claudia Schiffer che mi prepara il cappuccino?
Il suo tempo libero come lo trascorre?
Debbo farle una confessione: io sono un prigioniero del tempo! Comunque, comprendo la sua domanda e mi adeguo: nei piccoli spazi che talvolta mi rimangono leggiucchio qualche pagina di Kundera o del Circolo Pickwick di Dickens. In rare occasioni gioco a dama con l’artista Claudio Massini: non per imitare la filosofia comportamentale di Duchamp (che giocava a scacchi), ma solo per desiderio di sana competizione.
Ma perché proprio Kundera e Dickens?
Le dirò, Kundera è un occhio vigile e dilatato sul presente dato che ogni sua descrizione, osservazione o sentimento sono profondi e motivati. Riguardo a Dickens, poi, questa mi pare la strada migliore per avvicinarsi al lavoro spropositato e particolarissimo di autori come John Currin e Sean Landers. E poi, scusi, non penserà mica che in un momento di pausa si possa leggere un testo di Francesco Bonami?
Lei ha compiuto i suoi studi di formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli; quelli sono stati anni divertenti?
Gli anni della gioventù, visti con il senno del poi, sono sempre entusiasmanti, travolgenti e meravigliosi. Debbo però sottolineare che per me, gli anni passati a Napoli, tra il ‘74 e il ‘78, sono stati qualcosa di più. In quegli anni a Napoli succedevano cose incredibili: si incontravano gli artisti più importanti di quel momento storico (da Nitsch a Kounellis, da Fabro a Oppenheim, da Warhol a Beuys) e si poteva assistere a conferenze mirabolanti, ponendosi in confronto diretto con autori della statura di Filiberto Menna, Giulio C. Argan, Achille Bonito Oliva, Enrico Crispolti.
Quale è il libro che le ha cambiato la vita?
Molti sono i libri che cambiano la vita, non posso che fare un piccolo elenco. La Bibbia, la Divina commedia, la maggior parte dei testi di Shakespeare, i racconti e i saggi di Borges, alcuni passi di Oscar Wilde, il pessimismo di Cioran, le metafore taoiste, “Gödel, Escher, Bach” di Hofstadter, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon, e si potrebbe continuare, dato che la vita continua a cambiare, poco per volta, giorno dopo giorno. Comunque, il libro d’arte della mia formazione giovanile è stato: “Arte povera” di Germano Celant.
Com’è stato l’avvio del progetto editoriale “Juliet”?
Una grande palestra operativa è stata, tra il 1975 e il 1985, la Cappella Underground: centoventi metri quadri di spazio espositivo: un rettangolo bianco e nitido. È lì che ho imparato a lavorare con gli artisti senza avere un adeguato budget finanziario a disposizione. L’illusione era che tutto potesse cambiare, che tutto potesse essere travolto, mentre a conti fatti si vede che nel deserto è davvero difficile piantare i ciclamini. Sul finire degli anni Settanta, dopo aver avviato delle sporadiche collaborazioni con la rivista Questarte, assieme a uno sparuto gruppo di amici (gli artisti Oreste Zevola e Antonio Sofianopulo, il promotore Rolan Marino, l’architetto Davio Fabris e la collezionista Giuliana Ferrara) mi sono inventato, nel 1980, questa bella avventura della rivista. La presunzione di inventarsi un prodotto editoriale, senza l’appoggio delle solite consorterie, fu di certo enorme, eppure il risultato è sotto gli occhi di tutti: cinque numeri all’anno di 112 pagine cadauno, un extra issue a tema libero, numerosi supplementi, allegati e cataloghi d’arte.
Il mercato dell’arte come ha recepito questa “invenzione” editoriale?
Pur tra mille ammiccamenti e affermazioni sarcastiche, il sistema dell’arte alla fine è stato costretto a recepire la proposta: è nella durata che si vede il fiato del maratoneta... mi pare...
In Italia, quanto è valorizzata e sostenuta l’arte contemporanea?
Sappiamo che le leggi italiane sono penalizzanti, sia a livello di IVA e sia a livello di defiscalizzazione. Credo non sia necessario tornarci sopra. Si tratta di cose risapute. D’altronde il nostro patrimonio storico è immenso e non riusciamo a custodire nemmeno quello. Molti nostri musei sono porti delle nebbie, luoghi morti dove non viene la voglia di entrare. Peraltro una insana legge ha deciso che i bookshop dei musei debbono essere dati in gestione a ditte esterne, ma nessuna ditta può pensare di sopravvivere quanto un museo conta diecimila visitatori all’anno, ecco perché molti nostri musei sono così tristi e sguarniti di qualsiasi offerta, sia questa un libro, una maglietta o una cartolina ricordo. Figuriamoci se in Italia è pensabile di dare una personalità giuridica a un museo o se un museo possa progettare di vendere una sua opera minore per poter finanziare una qualche ristrutturazione. Questo non è uno sproposito: altre legislazioni e altri paesi lo permettono. Ecco, l’Italia è un cantiere infinito e irrisolto, figuriamoci se di fronte a questi problemi colossali l’arte contemporanea possa avere un ruolo da leone. In Italia, fortunatamente abbiamo alcune grandi istituzioni, come la Biennale di Venezia che rimane un faro di luce girato verso il mondo. Ma a parte questo, la mancanza di una reale collaborazione a livello di rete museale davvero spaventa.
Oggi, come giudica il risultato raggiunto?
Beh, a posteriori è fin troppo facile emendarsi degli errori che si sono commessi o autoflagellarsi per gli artisti a cui si è dato spazio in eccesso. Preferisco, invece, ricordare i progetti più belli che sono riuscito a realizzare e cioè gli extra issues che in maniera forte hanno caratterizzato il lavoro editoriale di Juliet, dal 1985 in poi. Ecco una rosa ristretta di titoli: “Amazonas” (1990), “Bestio!” (1993), “Libellule” (1995), “Giungla” (1999), “No, non è lei” (2003), “Mamma, vogghiu fa’ l’artista” (2007).
Le pagine di “Juliet” danno spazio anche alla moda e al lavoro di ricerca di alcuni stilisti come forma di comunicazione d’arte?
Quando abbiamo potuto l’abbiamo fatto, anche perché d’altra parte, nel corso di questi trentacinque anni di attività editoriale, ci siamo occupati di tutto ciò che attiene alla sfera dell’immagine: dal fumetto al design, dall’architettura alla fotografia, dalla computer art al video, dal cinema a internet, dalla filosofia all’epistemologia della scienza, dalla pittura alla scultura, e così via.
Come immagina che sarà il made in Juliet fra altri trent’anni?
Mi auguro in piena espansione.
Perché crede che un cittadino di media cultura dovrebbe leggere la rivista Juliet?
I contenuti di Juliet art magazine sono molto vari: le pagine della rivista ospitano saggi, interviste e articoli su arte, design, fotografia, architettura, new media. Qualsiasi persona che desidera essere informata sulle tendenze figurative contemporanee non dovrebbe mancare di custodirla negli scaffali della propria biblioteca.
Infine un’ultima domanda proprio su... Juliet: perché è stato scelto un nome così atipico per intitolare una testata dedicata all’arte figurativa?
Il logo della testata fu scelto da Oreste Zevola, un bravissimo artista napoletano, prematuramente scomparso, e che in quegli anni risiedeva proprio a Trieste. Egli scelse un logo che ambiguamente potesse collocare la rivista tra la moda e le arti visive e che ci distinguesse a livello immediato da altre pubblicazioni più datate come Artforum, Kunstforum o Flash Art che sempre anteponevano alla fantasia interpretativa l’austerità del lemma ‘arte’. Debbo dire che negli anni questa intuizione ha retto bene e ci ha accattivato le simpatie di un pubblico molto vario.
In foto:
Roberto Vidali e Antonio Sofianopulo